Shack Sweet Shack. Soluzioni progettuali per un insediamento informale in Freetown, Sierra Leone
Scritto da Damianos Damianakos   
mercoledì 29 giugno 2016
AutoreFederico Monica
RelatoreProf. Michele Zazzi
CorrelatoreProf. Paolo Bertozzi, Prof. Andrea Costa
UniversitàUniversità degli studi di Parma
Data di discussione
Anno Accademico2008/2009
LuogoFreetown
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INTRODUZIONE [Estratto]



Nel 1966 l'architetto britannico John F. C. Turner sosteneva che nel panorama urbano delle città allora appartenenti al cosiddetto “terzo mondo”, gli insediamenti spontanei e abusivi non rappresentavano un “problema”, bensì “la soluzione a un problema" basilare e antico quanto l'uomo: la necessità di avere un riparo. Oltre quarant'anni dopo le statistiche chilometriche delle massime istituzioni mondiali lanciano il grido d'allarme: per la prima volta nella storia dell'umanità la popolazione urbana ha superato la popolazione residente in zone rurali. La grande maggioranza di questa popolazione urbana risiede nelle metropoli dei paesi in via di sviluppo: Mumbai, Città del Messico, Lagos e molte altre città si apprestano, grazie a tassi di crescita di oltre il 5% a superare, nei prossimi dieci anni, le “storiche” megalopoli occidentali. Si calcola, nelle stesse tabelle di UN habitat, che oltre un miliardo e mezzo di persone, il 25% della popolazione mondiale, viva in insediamenti precari, abusivi o autocostruiti. Nonostante questo si continua a parlare, anche a livello istituzionale, di "emergenza bìdonvilles”, di "città senza slum", senza tener conto della reale situazione: se ai tempi di Turner si poteva parlare di una città "ordinaria" circondata da fasce sempre più ampie di quartieri spontanei oggi la situazione è radicalmente cambiata. Mentre si continuava a dibattere su come considerare e classificare l'abitare informale e illegale adiacente alle città questo stile di abitare e costruire è diventato la città vera e propria. […]



La cosiddetta città informale in definitiva non è più la parte (malata o vitale che sia) di un sistema complesso basato su un rapporto classico centro-periferia, ma è diventata essa stessa la città, non solo a causa della continua espansione territoriale e demografica, ma soprattutto in quanto motore economico in gran parte autosufficiente e in grado di ovviare alla carenza di offerta lavorativa che caratterizza la cosiddetta città "ufficiale". Da questo deriva la necessità pressante di ripensare un “metodo di pianificazione" efficace che possa garantire linee guida di sviluppo urbano, ma anche la flessibilità necessaria per poter essere applicato in realtà che hanno tassi di crescita inimmaginabili (a Lagos giungono dalle campagne oltre 1000 persone al giorno) e problematiche complesse che coinvolgono molti ambiti e che rendono insufficiente un sistema di pianificazione analogo al nostro (il quale peraltro anche qui dimostra alti livelli di inefficienza) che, nonostante questo, viene talvolta utilizzato sconsideratamente nei Pvs.



Come scrive l'architetto pachistano Yasmeen Lari “uno slum pianificato è quasi sempre peggiore rispetto ad uno slum spontaneo". Senza scadere nella retorica idealista l`affermazione appare oggi, almeno in parte, condivisibile: l'abitare informale, in molti casi mantiene una dimensione, un'estetica e una “filosofia” più autentiche, create su misura da e per chi le abita e non imposte dall'alto con canoni e standard presi in prestito dall'occidente. Usando una terminologia banale, orribile e per di più abusata verrebbe da dire che nonostante gli innumerevoli problemi, tali realtà mantengono una dimensione “a misura d'uomo". E' il caso ad esempio delle periferie di molte capitali africane, cresciute a dismisura dall'epoca delle indipendenze in poi; in questi agglomerati di lamiere e fogne a cielo aperto si ritrovano spesso strutture sociali e legami assimilabili alle realtà rurali tradizionali, che permettono a una comunità di sostenersi e di reinterpretare la realtà urbana con sistemi che esulano dai nostri schemi abituali: economia informale, coltivazione intensiva del suolo pubblico, condivisione delle risorse e dei beni, famiglia allargata... condizioni che permettono di meglio sopportare gli innumerevoli e innegabili problemi presenti in queste realtà. Tutti questi “valori” su cui si basa la sopravvivenza di una società che, nonostante l'inurbamento, mantiene ancora legami fortissimi con le proprie radici vanno irrimediabilmente perdute nei più razionali quartieri “low cost" edificati attraverso programmi di aiuto internazionale: qui, più che nelle bidonvilles spontanee, scoppiano tensioni sociali fortissime dovute in primo luogo alla mancanza di lavoro “regolare”.



Che fare dunque? Ci sono due tendenze opposte e inconciliabili: Il delirio di onnipotenza, di cui molti pianificatori specialmente occidentali sono inconsapevoli vittime, che vede lo slum come una sorta di male assoluto da estirpare (in questo caso da radere al suolo) e ricostruire secondo modelli presi in prestito da altre culture, contrapposto a una sorta di “pensiero debole" idealista che tende a rinunciare ad un qualsiasi tipo di intervento lasciando la situazione in balia di uno sviluppo senza né regole né prospettive a lungo termine. Esiste una terza via? Probabilmente sì, ma una cosa è certa: non è codificabile in regole universali e non può, per nessun motivo, venire rinchiusa in un “modello” di sviluppo né a livello di approccio concettuale nè all'interno di interventi concreti di pianificazione. Le distanze geografiche, culturali e sociali all'interno di quello che, con un termine oramai obsoleto da venticinque anni, si continua a definire semplicisticamente “terzo mondo" sono abissali: da regione a regione, spesso all'interno di uno stesso stato variano non solo gli standard e gli stili di vita, ma soprattutto i parametri da considerare per formulare un'analisi della città (densità di popolazione, rapporto costruito/aree libere, metri quadrati pro-capite ecc.).



 



 

Tipologia tesiProgetto urbanistica
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Ultimo aggiornamento ( mercoledì 29 giugno 2016 )